Raggiungo lo strumento con un rintocco di carta
in fase, l'enuncio che favilla uno spago di memorie.
In pigiama erro il tempo, ascolto precipua l'aria,
come un palo finto in uno stridore di pigolii in fiore.
La pesanza compie nodi incolore in vetta al mio capo,
nel bilico del vivere, all'uopo dell'uovo che fa buio.
Contro il cinerino palagio, svolto cuori di concetti,
e una dottrina d'affanni mi leviga inaugurando il crespo.
Lordo e bisunto le baie di plasma cozzano lo sfacelo di niente;
le nebbie e gli spasmi si sono leccati, hanno ben inteso
il rifugio cantonale, dove la stretta faccia della cupola secolare
è un tumulare irrigidito.
Tale dinamismo s'è segregato dal nulla,
ha unto la sponda col sofisma
e ceruleo sangue è in affitto col traviso discinto,
con la misericordia dell'astio appena munto.
Lo scampo s'incide in una tazza crepata,
le stanze una volta imbronciate m'hanno stretto
ora non più, respiro a intervalli, respiro un sogno gozzo.
E il sonno s'è permutato ad aurora
sono in una parentesi di commiato
in cui il fulmine stretto m'ha inondato di valori dal soggetto.
Tutte le notti di sole fisso l'attimo, barattando un truismo incerto
con un bianco e nero
la realtà non si squama, si sfoglia dove è in bilico la nostra soglia
e resina e gesti han ringhiottito la spazzatura.
Profano nel millennio
cenere nei cantoni alla rinfusa
i rintocchi del corpo sono finiti
e ogni piaga fa pagare per un sommo irrevocabile.
Ogni stagione svela incongruente voce
e la filovia affonda avvolta
rischiarita dalla foschia incavata
e trema e trema
nella gola dell'indubbio lampante.
Ecco dunque la fisionomia, mappa di vetro e sale
in cui lacrime fabbricano voragini
sapere e
vivere,
nei lazzi dei crampi, negli archi in frassino freddi e caldi
cuora congerie risanano la distanza del tratto segmentato -
mai uniforme, e per questo
per questo
dove battiti di farfalle e tipula in carcere
bisbiglii di brina
la mia indifferenza mi ha salvato.