Raggiungo lo strumento con un rintocco di carta
in fase, l'enuncio che favilla uno spago di memorie.
In pigiama erro il tempo, ascolto precipua l'aria,
come un palo finto in uno stridore di pigolii in fiore.
La pesanza compie nodi incolore in vetta al mio capo,
nel bilico del vivere, all'uopo dell'uovo che fa buio.
Contro il cinerino palagio, svolto cuori di concetti,
e una dottrina d'affanni mi leviga inaugurando il crespo.
Lordo e bisunto le baie di plasma cozzano lo sfacelo di niente;
le nebbie e gli spasmi si sono leccati, hanno ben inteso
il rifugio cantonale, dove la stretta faccia della cupola secolare
è un tumulare irrigidito.
Tale dinamismo s'è segregato dal nulla,
ha unto la sponda col sofisma
e ceruleo sangue è in affitto col traviso discinto,
con la misericordia dell'astio appena munto.
Lo scampo s'incide in una tazza crepata,
le stanze una volta imbronciate m'hanno stretto
ora non più, respiro a intervalli, respiro un sogno gozzo.
E il sonno s'è permutato ad aurora
sono in una parentesi di commiato
in cui il fulmine stretto m'ha inondato di valori dal soggetto.
Tutte le notti di sole fisso l'attimo, barattando un truismo incerto
con un bianco e nero
la realtà non si squama, si sfoglia dove è in bilico la nostra soglia
e resina e gesti han ringhiottito la spazzatura.
Profano nel millennio
cenere nei cantoni alla rinfusa
i rintocchi del corpo sono finiti
e ogni piaga fa pagare per un sommo irrevocabile.
Ogni stagione svela incongruente voce
e la filovia affonda avvolta
rischiarita dalla foschia incavata
e trema e trema
nella gola dell'indubbio lampante.
Ecco dunque la fisionomia, mappa di vetro e sale
in cui lacrime fabbricano voragini
sapere e
vivere,
nei lazzi dei crampi, negli archi in frassino freddi e caldi
cuora congerie risanano la distanza del tratto segmentato -
mai uniforme, e per questo
per questo
dove battiti di farfalle e tipula in carcere
bisbiglii di brina
la mia indifferenza mi ha salvato.
venerdì 10 dicembre 2010
martedì 12 ottobre 2010
ecce potenziale
Nell'ineffabilità d'un lasso di significato, è come far scontrare il cranio abbiente con una realtà misera. Un sospiro colmato di fantasia, di veggenza, di prospettiva, viene a trovarsi secco e diluito nella prospettiva altrui. Tali sono concezioni atipiche, irreali: l'io nostro è analogo ad un viandante cadaverico, probabilmente già carico di polvere, già svuotato di tessuti, già schernito, ma non umiliato. Non vedo l'aborto come un'umiliazione, piuttosto come un fortuito accreditarsi al vigore del paradosso. Lo spasmo compenetra il languore, l'istante speculativo cede il passo ad un baleno mistico, una speranza si propone a pura retorica. E cosa perdura nel giaciglio di cavi marmi? Un poderoso spazio. Esso s'apporpia dell'essere nel momento del suo esser concepito. Non nato, concepito. E' allora che ogni idea osa, e si sperimenta nella fisicità, nello scontro, nel precettismo. Scava un baratro nella volta originaria, s'assurge un rogo d'aria, un teorema di tempo, una scappatoia di significato. Tale prospettiva impregnata d'elementare creatività - probabilmente perchè intesa - è nel corso di verità essenzialistiche un'altra mancanza d'originalità cosmica. Qui invero è concentrato ogni contrasto, ogni desiderio, ogni efferatezza, ogni godimento, ogni illusione. In questo istinto perimetrico della stabilità esistenziale si sonda ciò che l'esistere creativo non foggia: un'utopia ludibriistica. Insuffla la contraddizione del principio, che contraddizione non è. Difatti le realtà che tendono a collidere sfrecciano come grida di luce su verticalità differenti, ove solo la meta è unica per tutte queste componenti. una volta incrociate al traguardo esse annullano il loro ostile usurpatore, in quanto ogni realtà sensitiva ne usurpa sempre un'altra. E pure nella condizione in cui ne sussistano più di una simultaneamente, esse non si sgozzano, non si frantumano, ma convivono, apportando sfumature percettive disambigue ed elevando l'essere ad uno stato di maggiore completezza. Per taluni significati, un paradosso comunemente inteso non può sorgere tra le brame e i rovi di un uomo. Il paradosso si forgia solamente nella circostanza in cui un uomo viene a divergere con un altro uomo. Allora il terriccio si carica, l'alito nei nembi vieneo trafitto, e ogni zolla o pozzanghera raggelata di metropoli viene scossa come ghermita di comete. No, in realtà tutto resta immobile, tranne i terricci interni, tranne le metropoli della ragione esistenziale. La collisione è sempre parziale, velata da sregolatezza tante quante le probabilità, e le maglie dell'essere sembrano sfaldarsi. Ma è tutto lì. Un uomo cosa può scorgere e contemplare tanto avidamente in un suo prossimo? Una tensione intrinseca, una sceneggiatura amatoriale, una danza ridondante. Una pura sfida, che con il suo spazio ed il suo teorema viene nell'arena trascurata con noi. Entrambi stipati, entrambi con rivoli si sangue, entrambi con la lancia o con il sistro, e l'effrazione è sicura, pure se ignorata. Non sono forse come le sensazioni percettive? Tutto è un dominio soggiogato, un'equilibrio insoddisfatto e la collisione è solo apparente. L'illusione è un marzolino immoto e prescritto, ribelle e indigente nello sguardo aromatico della realtà. Uno sbadiglio si cammuffa da affanno, un arco culmina nelle impronte di un perdono, di una vendetta, oramai meno che casti o schietti. Schiavi prosperosi.
Ecce potenziale potenziale potenziale
Ecce potenziale potenziale potenziale
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