martedì 11 gennaio 2011
Pati sine lamentatione
Le grazie e le disperazioni ermetiche sono slanci parafrasati nel decorso di una tipologia attiva, un'irreparabilità che fluisce dinamica quanto mai compatta nella gola di un cannibale. Come attimi di pura stasi, s'identificano con le sregolatezze del regresso caotico della personalità compiuta. Dall'olimpo delle affinità, dalle elevature dei lussi incombenti, esse si spezzano come chiodi bruni nell'ingranaggio d'un'estasi dalla continuità. Permettono privilegi mediocri, scappatoie inconfessabili, vizi impraticabili, spontaneità che includono tutto tranne che la bramosia della pianificazione. Le grazie, più precisamente, sono figliole in adozione: esse vengono sempre tremendamente partorite da idoneità oggettive sulla soggettività vergine, sono un seme del vissuto caotico. Sono meri influssi del caos, giochi con cui dilettarsi con la coscienza. Le grazie sono sempre in scissione con la coscienza. Sono un peccato che non ci spetta, se non come svago dissimulatore. Le disperazioni sono contrariamente vite dei nostri selciati. Irreparabilità con le quali relazionarsi con l'esterno, bufere personali che agglomerano col mondo. La massa amorfa delle persone scade così; ogni disperazione è una confutazione, ogni dolore è un incarico, eppure è di quanto più intimo sussista. I beni sono necessità che avvengono per fattori costrutti, sempre estranei principalmente alla nostra essenza invariata, i dolori sono cinte che conservano tali positività, tutto ciò che di particolare si va affrontando, di conseguenza provengono dalla nostra interiorità più ascetica. Constatabile è infatti che ogni dolore è null'altro che una risposta, un nucleo che si serba da sempre sulle pareti del nostro cuore e sulle essenze della nostra mente. Ciò che le relaziona è proprio questo: l'emotività si configura con il razocinio, e da questa unione ne scaturisce una vertigine che mira a pretendere sempre qualcosa di dissimile, ovvero qualche ente che provenga da un altrui essere o fenomeno (che normalmente non mancherà di allacciarsi con la nostra persona), maturato in quell'istante in struttura esistenziale differente dalla nostra, per tempestività di processi. Questa entità benigna la si può nominare come affezione dalla beatitudine. Essa è la forma più elevata del bene, ovvero quando ogni bene ha raggiunto una stabilità armonica con gli altri in un processo di maturazione dell'essere preso in soggetto. Il suo contrario è la disperazione. Esso è l'elemento che più si appaga del bene, della beatitudine, è il cane da guardia di questa che, senza padrone, è destinato a cadere in una rete di collera e di incapacità. La vera disperazione è la mancanza ad ogni bene proporzionale a questi, in relazione sempre indivisibile, un quoto solidale, egoista nella forma più disparata. Ma la vertigine più dolorosa di cui è elevatamente vittima l'uomo non è la disperazione; o almeno non quella generalmente intesa. È piuttosto la disperazione oggettiva. Non quella che si avverte per il mondo, ma quella che si manifesta una sola volta, quando si decide di commettere l'irreparabile, quando le maglie dell'esistenza vengono al crollo, quando ogni elemento è sacrificale e richiede il massimo sacrificio. Nella disperazione vera non si ha più la forza di urlare, ma solo di contemplare questa, per un'ultima volta. Allora non si è più in un deserto muto, allora si è in bilico tra la scelta mancata e l'oblio. La sicurezza che c'è in questa disperazione è della fine; non si può proprorre allora che tale disperazione è in realtà una autoforma di soddisfazione più totale? - perchè, quanto è più alta la disfatta, tanto è più alto il rimedio che vi si può scovare. Ma questa che sto assiduamente professando non è capacitata; è nell'incoscienza d'un pulviscolo cadaverico, un torrente vermiglio, ricco di vitalità più che mai: è la vitalità più distorta in natura, in quanto è la vitalità che nega la stessa, ma non già come morte, ma come respiro stizzoso che in questa intravede scviolando solo la sua negazione. Irresponsabilità tenace, l'unico sguardo che si può prestare al finire del mondo. Non è un lamento, è una constatazione di paralisi, è l'ultimo lamento dell'anima, l'estremità di svolta, la polarità della sensazione che trascende ormai la ragione, anche se era sgorgata da questa, come una comune disperazione. Ecco dunque che essa nobilita l'animo: è la più raffinata incoscienza della coscienza, la quale vira ad un'essenzialità assoluta quanto ironica, nella sua ambiguità completa, che riduce tutto partendo da una singola mediocrità, quale è al disperazione, giungendo ad una sopraffazione di questa con il suo più profondo significato. Non è più nulla, non è più tutto, è solo ciò che rimane come valore all'irrazionalità dell'esistere. La materia della vita è contradditoria alla vita stessa. Follia, ambiguità, redenzione, la Disperazione. Senza significato, ma con massima rappresaglia, la vendetta più diletta alla vita.
Complotti lunari
Un'urina di stelle, l'oblio edifica il suo fiato sui letti delle nuche
dove si stendono ominidi pronti per l'incarico dello slittamento gerarchico
nella scala del carbonizzato tacere.
Nel frullato del mondo coincide un brusio implicito,
e le scorze dalla trama si dimettono come scaracchio di miti remoti.
Il muco sgattaiola all'uscita, e l'altare del piombo pressurizzante
inchioda risi e anatemi.
- in questo aborto siderale di luci e affinità raggelate
la depressione sacrifica agli angoli effervescenti o ai pilastri di spazio
l'unico raggiro che possiede. Ed è sabbia corta. Anello dell'attrito. S'affievolisce il magma di seta.
Respiro lacerato. Irrora schiuma al calice lunare. Statura di colpa, supplizio orbitale.
Salpato nella traiettoria, il sacrilegio dell'ignoto ci unge di soffioni nella nostra mole,
che elastica come un adesivo impone slanci e santi coagulati sulla terra scheletrica -
decadono superfici e rauca qui non v'è acqua.
L'emissione è un raggio unitario di un cratere color latte,
in cui odissee d'infortunio si sono arrovellate su lunule di corone,
e infossati i sismi si piegano a bende di crepe - e l'eclissi è inevitabile, scivolamento stazionale.
Stridono le galassie, le labbra del cosmo smagrano in vulgate sorde.
E dunque, il delitto in un esilio, quello abbagliante della notte, in cui una bara serba più clamore.
In taniche di gas si brilla con attitudine gli spicchi cristallini, ove roccie e sonde
giocano a prendere nel diafano capofitto, esangue decorso d'un binario immoto; d'una sdrucciola gravitante
- del nero, del colloquio del satellite.
dove si stendono ominidi pronti per l'incarico dello slittamento gerarchico
nella scala del carbonizzato tacere.
Nel frullato del mondo coincide un brusio implicito,
e le scorze dalla trama si dimettono come scaracchio di miti remoti.
Il muco sgattaiola all'uscita, e l'altare del piombo pressurizzante
inchioda risi e anatemi.
- in questo aborto siderale di luci e affinità raggelate
la depressione sacrifica agli angoli effervescenti o ai pilastri di spazio
l'unico raggiro che possiede. Ed è sabbia corta. Anello dell'attrito. S'affievolisce il magma di seta.
Respiro lacerato. Irrora schiuma al calice lunare. Statura di colpa, supplizio orbitale.
Salpato nella traiettoria, il sacrilegio dell'ignoto ci unge di soffioni nella nostra mole,
che elastica come un adesivo impone slanci e santi coagulati sulla terra scheletrica -
decadono superfici e rauca qui non v'è acqua.
L'emissione è un raggio unitario di un cratere color latte,
in cui odissee d'infortunio si sono arrovellate su lunule di corone,
e infossati i sismi si piegano a bende di crepe - e l'eclissi è inevitabile, scivolamento stazionale.
Stridono le galassie, le labbra del cosmo smagrano in vulgate sorde.
E dunque, il delitto in un esilio, quello abbagliante della notte, in cui una bara serba più clamore.
In taniche di gas si brilla con attitudine gli spicchi cristallini, ove roccie e sonde
giocano a prendere nel diafano capofitto, esangue decorso d'un binario immoto; d'una sdrucciola gravitante
- del nero, del colloquio del satellite.
lunedì 10 gennaio 2011
nnt imp e saluti
Indifferenza e menzione
una condanna, una condannaaa
che con scaglie di taglio
s'incendia nel baratro dove si piscia.
Questo cielo, che ingabbia con colate d'ossigeno
che snerva l'osso con sacchi di freddo
è un sorso d'inzuppo è una sciarpa intensa
è una meteora di chili
che siedono sul tuo capo stampato.
Io, carminio camerista cuore di uosa
sotto tal cielo, in debito con l'esser torchiato,
nel più insulso lago di scorticato tessuto.
Il cielo, monitor dinamico di spaghetti stinti,
di sopra è rotto col significato
sformato nel canto di un neonato.
L'ometto stecco che non crolla sono io,
solo con la risata che sradica soffitti,
che impenna versatili entusiasmi
che viene udito solo da se stesso.
La pulsazione è una volontà didattica e il senso un'ilarità versata a ritmo di chiatta...
passeggiata nelle nuvole più nuvolose, nel cinerino d'una umidità rarefatta
a basso pendio, dove gli stendardi son spulciati, sciorinare alle litote termiti
- stuoli nel fiocco di neve in disfagia planetaria.
E il punto . è uno unico solitario taciuto peculiare retrosenso
accisa l'erezione, mi mando nel mondo come un agnello in mezzo al.
Debita conseguenza: abusione di passione. Null'altro che una parola.
Interessamento malazzato, infervorato nella sfera nostra; cala il caglio dove c'è ciò che non dovrebbe.
Si cerca l'enzima di sangue, la parola smorta e il sorriso si ripiega
in un broncio sensato alle labbra d'un oroscopo, di una folle ribollita dopo un'uccisione.
-
Una gara di plasma, di nervi in aderenza
e quando intima un latrato la zizzania parabolica è perpendicolare quanto dove si vuol scagliare
a spiga color carta da gioco
-
prostrati al cielo, nelle ceneri del mantenimento.
una condanna, una condannaaa
che con scaglie di taglio
s'incendia nel baratro dove si piscia.
Questo cielo, che ingabbia con colate d'ossigeno
che snerva l'osso con sacchi di freddo
è un sorso d'inzuppo è una sciarpa intensa
è una meteora di chili
che siedono sul tuo capo stampato.
Io, carminio camerista cuore di uosa
sotto tal cielo, in debito con l'esser torchiato,
nel più insulso lago di scorticato tessuto.
Il cielo, monitor dinamico di spaghetti stinti,
di sopra è rotto col significato
sformato nel canto di un neonato.
L'ometto stecco che non crolla sono io,
solo con la risata che sradica soffitti,
che impenna versatili entusiasmi
che viene udito solo da se stesso.
La pulsazione è una volontà didattica e il senso un'ilarità versata a ritmo di chiatta...
passeggiata nelle nuvole più nuvolose, nel cinerino d'una umidità rarefatta
a basso pendio, dove gli stendardi son spulciati, sciorinare alle litote termiti
- stuoli nel fiocco di neve in disfagia planetaria.
E il punto . è uno unico solitario taciuto peculiare retrosenso
accisa l'erezione, mi mando nel mondo come un agnello in mezzo al.
Debita conseguenza: abusione di passione. Null'altro che una parola.
Interessamento malazzato, infervorato nella sfera nostra; cala il caglio dove c'è ciò che non dovrebbe.
Si cerca l'enzima di sangue, la parola smorta e il sorriso si ripiega
in un broncio sensato alle labbra d'un oroscopo, di una folle ribollita dopo un'uccisione.
-
Una gara di plasma, di nervi in aderenza
e quando intima un latrato la zizzania parabolica è perpendicolare quanto dove si vuol scagliare
a spiga color carta da gioco
-
prostrati al cielo, nelle ceneri del mantenimento.
Iscriviti a:
Post (Atom)