venerdì 4 marzo 2011

Esistenzialismo puro ovvero horror vacui

Ora, che il mondo ci appaia una fede, questa è una nozione surrogata; le colonne vive che tengono in piedi la fantasia sono proprietà del reale, un sillogismo trascurato e mediocre. La fantasia non è altri che la motrice dell'effettivo: si può trarne la radice di una profusione, un quantificatore che si pone come cuscino o meglio come lama tra due realtà, una conoscitiva, l'altra invalicabile. Il mondo del concreto è tale, un solido plasmato a fortezza, ciò che gli si impone è lo scalpo dell'irrazionale, un ente tangibile della fede, che comprende in sè costituenti intelligibili, ma del tutto stranieri ai sensi della realtà "che è sondabile", pure se non è sondata. I sensi dunque sono un patrimonio di soluzione, la scusa che ha la vita per professarsi. Le realtà sono sempre istituzioni finite, pure per lo spazio - l'infinito, pure per il tempo - l'eterno. Questo pandemonio che contempla il microcosmo dell'esistere è invece una costituzione che supera la realtà, andando a sfociare nell'indifferenza cosmologica. È l'ignorato della realtà, l'unico spazio che non è soggetto a questa, siffatto insieme cosmopolita. Il suo surrogato però unge un accidente proprio dell'uomo: l'immaginazione, la destinata sconfitta dell'essere umano - ciò che per definizione è sempre effetto, ciò che detiene pura inaccessibilità, perspicua solamente agl'arti degli apostoli del futuro della dilatazione. Lo spazio di cui andavo professando non è più che fede, e tale si prostra rabbrividendo, ma se una dei suoi principi è la marcia esistenza, questa si proietta solamente perchè vi è un sostituto nello spazio ignoto dell'immaginazione umana - atto da far bastare che in effetti sussista. Il suo succedaneo più solito e più inflessibile è l'incognita esistenziale, il puro ignoto. Invero, l'ignoto altri non è che il nulla per la coscienza soggettiva, ma che occupa un posto limitato in quella oggettiva. L'assurdità dell'esistere, quella precarietà che agli occhi appare come un fallimento, ma che in veste oggettiva non è neppure quello, è una debolezza effettiva, che mina le basi della realtà che è. Ciò che non è, è proprio quello su cui può aver fallito lo scopo dell'esistere, ciò che non è, ciò che l'io soggettivo non riconosce, l'ignoto, la sostanza del nulla. Il nonsense dell'esistere non è propriamente una falla se rapportata al suo scopo - con il visore dell'umana stirpe, in quanto il nonsense stesso può essere trattato come uno scopo, anzi, si potrebbe dire che è lo scopo di non avere scopi. Ma in verità è meno che mai questo: lo scopo che si può accostare al non-scopo è puramente una interpretazione della logica umana che - in termini effettivi di natura - non esiste; un ideale della coscienza a posteriori, un adattamento condizionante. Quale esegesi migliore da accostare al terso ignoto? Ma si parla dell'ignoto sondabile o dell'Ignoto inespugnabile pure per i sensi, tale dogma precluso? Le proprietà dell'assurdo sono predicati di ciò che esiste, di ciò che è possibile verificare; le loro affinità con il nulla sono puramente di ordine interpretativo di una speculazione per ora unicamente umana, in quanto privi di finalità oggettiva; ma ciò che è, per definizione è ciò che esiste, o almeno ciò che pare esistere per-sè, ovvero un rimpianto assoluto. Ciò che è fede è - dunque esiste - solo per il soggetto - tramite l'immaginazione, come s'è detto. In sostanza, l'Ignoto è solo per il soggetto, mentre l'ignoto è una affermazione o una negazione assoluta dell'oggetto, in quanto esiste qualcosa contenuto nell'ignoto o non esiste qualcosa contenuto in esso, ma esiste solo tale realtà. L'assurdità fondamentale è pura illazione, avvertita unicamente dal per-sè. e non dall'in-sè. Ergo il senso dell'esistere è rasoterra con quello dell'Ignoto superiore. Ecco come il solo senso di esistere sia un dogma insondabile, precluso da persuasioni e rimorsi su un selciato coperto da un sole deserto che non si avvederà mai.

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