sabato 10 dicembre 2011

wash di[sh]es

un'entità deve realizzare tramite un mezzo
io la servo e devo predisporre i mezzi
esistono due esemplari di mezzi
uno che mi vale più opera il servizio uno meno
nel tempo sequenziale al servizio dovrò riservire
l'entità utilizza ciò che contra disponibile
mi viene preservata una scelta
servo mezzo che vale meno opera
nella sequenza terminale esento arbitrio
se servo opera calante
tramite preservo di arbitrio prioramente proprietario
la lavata conseguentemente si restringe
nel mio coniato contingente
l'arbitrio impone il conseguente
all'entità perimetrata per cui totale conduce
a termine di arbitrio e[rgo] di lavata



martedì 14 giugno 2011

Dolentissimo Dio

Heii??? se ci sei io ci sono. Non si tratta d'arroganza, si tratta di sporco. La fogna illibata che è il mondo.
Noi. Una voragine nuda: dalla sua perpendicolarità si tuffa frangendosi nei nostri occhi, come cappio di perle o speranza curiosa. In ogni caso, la mia avversione combacia con la tua, la nostra tasca d'indecifrabile aequo con la vostra spinta in radice. Il primo grado, un effluvio manesco. Per noi, ingorgo senza tempo, il principio primo è la condizione per ogni sbeccata, ogni pacchetto di saliva raggrinzito. L'altro di ieri era il vaso di domani, ogni intesa è il deja-vù dei poveri, polsi e fegati si premono ai colli dal colore ricco, dall'ormeggiare protensivo. Prescienza è il limbo della forca. Si eviti di guardare sotto, grazie. Panni sifilitici - tepido afrore da torcere bacini, o squagliare nell'aulenza affossata anulari in visibilio perduto. Aria, aria! aprite i cancelli! squarciate i cancelli viventi! le inferriate color aurora ingioiellate di rugiada!... La nostra è una moltitudine di narici, crocifisse dal calo di enzimi, onesti fallimenti. Non abbiamo molto a cui concedere il nostro affanno, l'arrovello verte alla spezzata delle tempie, una follia fatta a frequenze di luce. Nel forno. Si puntino le sue interiora al verbale del profitto, almeno una bolla di gas empireo. Ma. Niente. Ed inferiormente oltre colpiscono sbuffando, uniti come siamo dall'anello della scorza. Grazie, ne volete? No, è intrasfigurabile. Gettate via. Gettatelo oltre il bordo di schiamazzi e colonne di fiato. Il tempo si è scheggiato una volta di troppo, non l'abbiam visto mai veramente passare, mai incrociato, nella sua abiura dei popoli - è lui che ci sfila, inesistente com'è. In questo vuoto astrale, l'unica cosa che ci mantiene è la sideralità del paradosso più longilineo. Ma il fetore - scabbia inceneritrice - ci contamina, è una convizione la sua, la persuasione che sbatte i timpani ai livelli umili. Ma noi? a ulteriori argomentazioni abbiam profuso i corpi celesti, rossi, magenta, colori senza nome, privi di spessore. La brinata vergine, gorghi ammantati d'incendio, bufere incalcolabili, slittanti nei motori primi, quei canali del primo grado. Sporcizia; granuli di cloaca, discarica di acini, semi invertebrati. Si ripiegano su se stessi una dozzina di volte, sbattendo gli sguardi stretti nei riguardi di chi li ha commentati. Schiocchiamo il ripensamento. La rimembranza - vero sacrilegio. Eco eco eco. Ora siamo noi lo schiavo grezzo e sunto, asservito dai misfatti, complotti di sfiducia. Quella è la vibratile cannibale, che senza parto, si sa, si schiude prima del ricordo. Ora il mefitico è inglobato nell'estremo, ciclopica e salmastra concatenazione; strina schizzando lingue di teppa, feccia che viene risucchiata prontamente dal nostro ritorno in sequenza, imburrando di sfregio i contorni d'ogni struttura. Mistificatore! complesso di menzognillusioni! Dubbiosi siamo dubbiosi: le nostre credenziali mai nessuno che le ha guardate. Medesimi nella rotta, vendemmia di tortura, quando il capriccio - callido in proporzione inversa - genera vendetta.

- l'assioma di Dio è la perfezione rapportata alle opere sue ultimate -




Una volta raggiunta la massima positività, non potrà che capitare qualcosa di peggiore.
Fango sulle suole ombreggianti, ingombranti nelle traiettorie dell'eterno della loro misura masochista.
Interrogato nella solitudine universale, in questa epoca, corridoio di spazio e vuoto, che giostra si potrà sperimentare? null'altro che un fantasma. Quasi ci si dovesse mettere alla prova. Ci può essere creazione pura e perfetta da un meticcio simile? e le cose sono in divenire di vendetta.
Almeno, se io fossi Dio, le cose starebbero in questa maniera; anoressica, anoressica - rustica e granita per la sacca di pelle morta, ispida come il rimpianto che fu. Ecco perchè tutti si possono ricoprire delle feci di creatore.

venerdì 13 maggio 2011

BE+ING = TEAR

Tra le vesti del mondo, ho serrato un cerchio. Un conciso cerchio reciso, sfuso recinto. Questo spazio - guglia tridimensionale, è in divenire: è un prospettico covo, cava dal prefisso ristretto. Strina con i contorni di vuoto, l'irretire l'ha avvitato con contrito sviluppo - un bollente abbraccio - convertendolo nella mia propria reggetta da me medesimo posseduta - o spelonca, che dir si voglia. Però non v'abitano topi, nè usurai, nè congeniti cittadini, nè idioti, nè amici. Una scusa secca per l'uso di quattro grafemi: si riassumono cineticamente in quello concludente. Con l'ossame dell'essenza, m'accorgo della barriera. È perpendicolare, è in pendio, uno scivolo più che una scala, ed io, mi trastullo serio serio. I margini del mondo si commutano colla polvere, i batteri fanno gli evangelisti, e vi è un suicidio di atomi; i detriti si fanno muti, s'allacciano come io sono allacciato, sovente più legnoso e/quindi realizzato. Non mi curo più del difuori, il per-sè oramai è  nulla più di un crollo insondato, il liquido dei problemi qui è ampolloso, un'illesa bolla aerea, in vertice al ritroso. Sono soffocato, puro baricentro in moto, circonfuso parabolico - parabola dell'uopo. Il mio sguardo è in curva, viscosa tenaglia, l'attrito è in lingua che s'assottiglia, nel niente si collide il tutto. L'indifferenza alla rinfusa è una grande attrattiva, pure se l'attenzione è lercia come un'insonnia. Purgatorio vile, ammasso gravitazionale, capogiro senza nome! l'orario è in struttura, questo è limbo inane, eppure sapidamente concordante. In fase fedele scruto tutto, dallo scalpo alla rotula, muscoli e mani, cuori e ombre; le fibie le fibie sono zanzare: ed io le loro viscere accelerate. Sembra tutto che scoppi, tra un'inscossa e l'altra, a fare il girotondo, mi devo reggere e tengo per mano me stesso - NON PLUS ULTRA sigillato e limpido in SUPRA del NERO OCEANO. Che il baratro con cui non m'imbatto (che non colgo, piuttosto) derivi dal latino o dal greco o da Platone o da Emerson, suppongo mi sia indifferente. Ora sono un'analisi in corona. Parmenide era un altro.

Sono i potenti della terra, con l'uragano di cielo e fango a spirale isometrica
sono un pozzo che non si trova
sono un riccio scuoiato che ha la pulsazione del cosmo
sono il paradosso che si spiega con se stesso.

Qui e basta, orizzonte d'oro, cristallo pirolitico, avvenire in boccio. Sono indefinitamente definito, qui e basta, da ora, da sempre, da mai.
L'inflessibilità è un mio diritto, dove io tocco lo premo, ogni punto è un diritto.
Qui, l'unica insufflata, la camera evolutiva curiosamente ambrata - mio interesse mia spada.
Le macchie si snodano infrante, il puzzo mi lambisce come un fantasma, tutto cade come anidride carbonica, alonato come una fontana di sangue. Calato come una corda, nel bel mezzo dei rifiuti e dei languori, la mia pazienza centesimale è tutt'una rorida radiazione abbronzante, che mi smussa simile ad un arco marcio che deve prendere la mira.
Ora gli escrementi si diluiscono con le lacrime, una conglobazione impeccabile. Il naso contratto e gli occhi madidi - il pianto pendulo mi danza intorno, accanto alla neve, polare al tuorlo d'uovo.


mercoledì 30 marzo 2011

La torture dans les forums, su un forum di Togainu no Chi

Mi trapiantavo come cenere sulla carta e, persa la bussola ho bussato alle care porte dell'inerzia. Percorro verticalità aeree come un verme dell'inferno e ora, come spesso accade ai miseri proverbiali dalle fittizie esperienze, mi rincorro da solo. La megalomania non è un parossismo e il mio tedio clorofillanio s'è degnato - svuotato di pudore o di malizia - a lambire questo stretto mare fantasma - questo forum, questo scampo della concettualità della forza.
Tutto è debolezza. - Il tragitto è incendiato da un vespro che slega il sofisma e l'autorogna (non perchè vada in auto, si intenda) che, a quanto pare a detta di molti, si traduce in prestanza equilibrata - recintata dai paletti cono-arancioni al fine di stipare la prepotenza; ma poi si sa, quei paletti cono-arancioni vengono rasi come da uno tsunami.
Per quanto mi riguarda, me ne andrò molto presto.
Ho riassunto circolazioni troppo teoriche, pardon.
Passando dal 99% della pleonastica irrisione a un buon 80%, restringiamoci nelle cose un pò più utili: sono un maschietto, 19 anni (si, li ho imparati) e i carnefici sono i miei più fidati spasimanti; Togainu no chi è una delle mie più rincuoranti condanne.
Cavolo sono sempre in ritardo nei miei teoremi personali... per esempio ce ne vorrà prima di prendere in mano l'Ulisse di Joyce... se qualcuno l'ha letto, che mi dia un plausibilie parere, che sono curioso, grazie.
In sintesi sono un piccolo ukettino in cerca del suo Akira personale (dove io starei per Rin); spero non mi andrà bene cercare anche un Arbitro (ove io sarei Kau) anche se confesso, ci faccio molti pensierini...
ciau a voi la palla piena di Line.

domenica 13 marzo 2011

I manichini

Flash di sbocco - rete di sguardi.
Ti guardano, misteriosi come la pece del paradiso
ti scrutano con maschere da spauracchi
contemplano, inquadrano, pietrificano
più scherzosi di clown antichi, col trucco e i capelli irti.
Fantocci delle ombre, dove le ombre sono di paglia,

fossilizzano in un istante la sensazione del pudore,
prudere di una carcassa immoto
i volti scolpiti nel secolo - una razza che mi ha fatto scordare -
il cosmetico si sta liquefando e sono difficili, tanto difficili.
Il punto di neve è un legamento
sortilegio sacrilego nel lago di lava nera
in cui ci perdi le gambe, poi la testa.
Corvini e mori hanno volti impersonali
l'espressione proverbiale di tessuto, freddo
squadro bianco, senza organo in pareti tremanti.
Cento volti d'eremita - casti in un dialettico silenzio
vergini riparati da una vetrina
sono riconosciuti operai-dandy dai labbri serrati.

Ancora un sorso e si possono portare a letto
nel gesso nel rigido disprezzo
quel decorso esposto che ti ride dietro.
Se li sviti - sono intercambiabili - puoi slegargli un osso
un muscolo strinato dall'inerte testo
antropomorfo diletto, clonazione del fiato
che si stende sul tuo materasso deserto.

Nel pallore dell'acconciamento
- senza frattaglie una fattura, con pupille di merlo -
sono ammassati nel gioco del buio, d'un Oviesse riassemblato,
quando la duplicazione è un risarcimento
questa persona in produzione mi si secca dentro
senza scoppio
senza fango o fremito
ma solo con un braccio di benvenuto bianco.

venerdì 4 marzo 2011

Esistenzialismo puro ovvero horror vacui

Ora, che il mondo ci appaia una fede, questa è una nozione surrogata; le colonne vive che tengono in piedi la fantasia sono proprietà del reale, un sillogismo trascurato e mediocre. La fantasia non è altri che la motrice dell'effettivo: si può trarne la radice di una profusione, un quantificatore che si pone come cuscino o meglio come lama tra due realtà, una conoscitiva, l'altra invalicabile. Il mondo del concreto è tale, un solido plasmato a fortezza, ciò che gli si impone è lo scalpo dell'irrazionale, un ente tangibile della fede, che comprende in sè costituenti intelligibili, ma del tutto stranieri ai sensi della realtà "che è sondabile", pure se non è sondata. I sensi dunque sono un patrimonio di soluzione, la scusa che ha la vita per professarsi. Le realtà sono sempre istituzioni finite, pure per lo spazio - l'infinito, pure per il tempo - l'eterno. Questo pandemonio che contempla il microcosmo dell'esistere è invece una costituzione che supera la realtà, andando a sfociare nell'indifferenza cosmologica. È l'ignorato della realtà, l'unico spazio che non è soggetto a questa, siffatto insieme cosmopolita. Il suo surrogato però unge un accidente proprio dell'uomo: l'immaginazione, la destinata sconfitta dell'essere umano - ciò che per definizione è sempre effetto, ciò che detiene pura inaccessibilità, perspicua solamente agl'arti degli apostoli del futuro della dilatazione. Lo spazio di cui andavo professando non è più che fede, e tale si prostra rabbrividendo, ma se una dei suoi principi è la marcia esistenza, questa si proietta solamente perchè vi è un sostituto nello spazio ignoto dell'immaginazione umana - atto da far bastare che in effetti sussista. Il suo succedaneo più solito e più inflessibile è l'incognita esistenziale, il puro ignoto. Invero, l'ignoto altri non è che il nulla per la coscienza soggettiva, ma che occupa un posto limitato in quella oggettiva. L'assurdità dell'esistere, quella precarietà che agli occhi appare come un fallimento, ma che in veste oggettiva non è neppure quello, è una debolezza effettiva, che mina le basi della realtà che è. Ciò che non è, è proprio quello su cui può aver fallito lo scopo dell'esistere, ciò che non è, ciò che l'io soggettivo non riconosce, l'ignoto, la sostanza del nulla. Il nonsense dell'esistere non è propriamente una falla se rapportata al suo scopo - con il visore dell'umana stirpe, in quanto il nonsense stesso può essere trattato come uno scopo, anzi, si potrebbe dire che è lo scopo di non avere scopi. Ma in verità è meno che mai questo: lo scopo che si può accostare al non-scopo è puramente una interpretazione della logica umana che - in termini effettivi di natura - non esiste; un ideale della coscienza a posteriori, un adattamento condizionante. Quale esegesi migliore da accostare al terso ignoto? Ma si parla dell'ignoto sondabile o dell'Ignoto inespugnabile pure per i sensi, tale dogma precluso? Le proprietà dell'assurdo sono predicati di ciò che esiste, di ciò che è possibile verificare; le loro affinità con il nulla sono puramente di ordine interpretativo di una speculazione per ora unicamente umana, in quanto privi di finalità oggettiva; ma ciò che è, per definizione è ciò che esiste, o almeno ciò che pare esistere per-sè, ovvero un rimpianto assoluto. Ciò che è fede è - dunque esiste - solo per il soggetto - tramite l'immaginazione, come s'è detto. In sostanza, l'Ignoto è solo per il soggetto, mentre l'ignoto è una affermazione o una negazione assoluta dell'oggetto, in quanto esiste qualcosa contenuto nell'ignoto o non esiste qualcosa contenuto in esso, ma esiste solo tale realtà. L'assurdità fondamentale è pura illazione, avvertita unicamente dal per-sè. e non dall'in-sè. Ergo il senso dell'esistere è rasoterra con quello dell'Ignoto superiore. Ecco come il solo senso di esistere sia un dogma insondabile, precluso da persuasioni e rimorsi su un selciato coperto da un sole deserto che non si avvederà mai.

lunedì 7 febbraio 2011

Ukelogia

Per coloro che non edificano concetti universali, ma ne promuovono l'assoluto dell'individualità, intendo abbracciare una vena di disprezzo, una sostanza di biasimo e una sarcastica stima. Essi sono i detentori dei cancelli della terra, ma, per questo, di una mediocrità banale. La mediocrità s'enfatizza nei vissuti altrui come una sorta di debolezza scabrosa, una volgarità stanca; ma la vera mediocrità è puro soggetto, come ogni altra cosa, che ne centrifuga principi e impressioni, tipologie e sensazioni. Ma la mediocrità di questa classe egoistica scaturisce propriamente dalla sua inclinazione ad un possesso che non realizzi ciò che professavano inizialmente, un esercizio concettuale di irresolutezza, che rende schiavi di una opportunistica e ferina necessità. Il disprezzo va per questa perdita di opportunità, che si riduce in mero sforzo controvoglia. Bisognerà però certo riconoscere, che ne saranno apparentemente appagati; è un processo scampato sia ai loro ideali sia alla loro gamma propria - concetto di partenza. Questo perchè da un lato sono divenuti repressi ridacchianti, dall'altro per una retrocessione delle intenzioni del principio di impudente benessere soggettivo. Essi sono innanzitutto esseri che hanno compreso il volto abulico e declive dell'esistenza; quindi con una tale coscienza, percorrono il loro calvario formato da pigri fiori e cerimonie disinteressate. Non v'è sofferenza per questo, ma solo da parte altrui di compatimento gnoseologico. Anche chi vanta di cogliere eccederà nella schiavitù. La stima è invece un auto-elogio, in quanto scorgiamo in simili entità il riversamento delle nostre convinzioni, sbocciate per loro mano - un rimando personificativo dell'insicurezza che ristagna in fondo all'essere di chiunque, sempre pronto (per bisogno) a ricevere nuove rassicurazioni. Questo concetto ci fortifica e fortifica la nostra concordanza con il mondo - che ci ha reso questo servigio stesso, che conduce irrimediabilmente a stati euforici di instabili nature. Sono dei miseri sapienti sfruttati, nullità che tentano di scoperchiare il nulla nel loro tutto. Ma sono essi la chiave della vita attiva. Ora, l'arazzo incorporato nelle viscere dell'argilla e delle lacrime è, se sia preferibile una vita attiva o una vita passiva. La distinzione è la coscienza di ciò che comporterà questa scelta di vita. La vita è, per definizione sostanziale, in una forma passiva, uno scivolo tragico della sensazione e del fatale. Ma in questa passività vi sono varie manifestazioni di stampo attivo, che funzionano solo dopo aver riconosciuto alla vita il concetto di passività predominante. Questo è il principio che caratterizza la vita, da cui ne derivano le facoltà surrogate. Da questo concetto subentrano poi i prototipi di vita attiva, sovente illusori, altri veritieri. Anche coloro i quali affermano di stare compiendo tragitti per l'oggettività, in realtà lo faranno per la loro soggettività ultima. Di conseguenza, non vi è altra tipologia di vita detta attiva se non la consecuzione alle proprie attitudini, che siano scopi o bisogni. Ma si può davvero addebitare a questo vuoto processo un sinonimo dell'esser attivo? Marchingegno fossile nel suo dinamismo che altro non è se non una realtà scolpita nel piombo, un ruscelletto che perde l'equilibrio all'interno degli argini, letti impassibili, realtà dalla stabilità predominante. La passività non può avere merito, in alcun modo: ecco come l'esistenza è sprovvista di onori, del valore di una zolla di parassiti, color vento, fraintesa merce. Ah, lo sfruttamento attivo della passività. Ora contemplo la discolpa degli assassini.

mercoledì 2 febbraio 2011

Solipsismo a esclusione

Ma voi, per uno sbalzo tricolore, avete lasciato trafugare il consenso tellurico? Non v'accorgete che è un fasto fisiologico l'equipaggiamento che mordete con mandibole da mitomane? La definizione delle nostre particelle è un suicidio, una gradinata declive, imperlata da gemme e scroti. E quell'eccesso particolare deve staccare, deve spezzare la veglia: ha stancato; le reti di frassino, i peli di rame, mani fra i capelli. Il disprezzo e due punti, un precipizio di finestre, uno scarto leggibile...perchè è una deiezione metafisica, e il tintinnio è pur logico, se pur pur dattiloscritto, che è un divenire di scaccomatto al sibilio e allo strepito e al clamore taciturno che fracassa rondini ovattate. Cotone e lino s'arrampicano in rivoluzione come trasferte sbiadite. Insomma, occhi sprangati. Respiro in rima. Contorsione scandita. Sta forse a me modificare il tragitto dei disdegni? Io posso pur sempre bagnarmi di radiazione, ma quel cubo non posso proprio risolverlo. 0 a 1. Le strategie termiche si sono tessute a vicenda, ricordo su ricordo, desiderio per ogni eccesso. Ideiamo la prova, anche se, il teoretico è insipiente, e cadrà sempre nei fossi di spazio. In generale le opzioni sono concetti predefiniti, [fede,] essere, consistere, in un modo scabroso divenire, ecc. Ad ogni modo non sono responsabilità: secondo l'Ade, - esse (s), rivendicazioni e chiazza sanguigna, - esse trovano esaltazione - sempre strisciante - più promettente nel mattatoio solipsismo intutitivo e interpersonale. Per non tradirsi, si realizzano. È micidiale il consenso che trovano...tanto smisurato quanto la menzogna che aggrava su di loro quando una di queste ne esige l'essenza. Solo l'immaginazione siderale riesce a sradicare le realtà ultime. E pompati di caos, si danza nella burla di fango, nel brivido d'uno sguardo. L'ovatta non trova spago, e la mela fa scoprire qualcosa che ora pare sia smentita. Il disprezzo vi è per tutti. Anzitutto per la perdita di cui si discorreva, - che poi, perdita non è. Alla fine: il soggetto sconfigge l'oggetto, proprio all'interno del soggetto stesso; per questo lo sbaraglia sadicamente. Il cielo del disprezzo è sempre rasoterra col suolo con cui fila - sdrucciolando falsamente.

per chi non avesse colto, sappiate solo che è puro refrigerio, uno sprint di foga che si stende sull'impulso della negazione; una verità che s'infrange sui lembi di fisima spenta.

martedì 11 gennaio 2011

Pati sine lamentatione

Le grazie e le disperazioni ermetiche sono slanci parafrasati nel decorso di una tipologia attiva, un'irreparabilità che fluisce dinamica quanto mai compatta nella gola di un cannibale. Come attimi di pura stasi, s'identificano con le sregolatezze del regresso caotico della personalità compiuta. Dall'olimpo delle affinità, dalle elevature dei lussi incombenti, esse si spezzano come chiodi bruni nell'ingranaggio d'un'estasi dalla continuità. Permettono privilegi mediocri, scappatoie inconfessabili, vizi impraticabili, spontaneità che includono tutto tranne che la bramosia della pianificazione. Le grazie, più precisamente, sono figliole in adozione: esse vengono sempre tremendamente partorite da idoneità oggettive sulla soggettività vergine, sono un seme del vissuto caotico. Sono meri influssi del caos, giochi con cui dilettarsi con la coscienza. Le grazie sono sempre in scissione con la coscienza. Sono un peccato che non ci spetta, se non come svago dissimulatore. Le disperazioni sono contrariamente vite dei nostri selciati. Irreparabilità con le quali relazionarsi con l'esterno, bufere personali che agglomerano col mondo. La massa amorfa delle persone scade così; ogni disperazione è una confutazione, ogni dolore è un incarico, eppure è di quanto più intimo sussista. I beni sono necessità che avvengono per fattori costrutti, sempre estranei principalmente alla nostra essenza invariata, i dolori sono cinte che conservano tali positività, tutto ciò che di particolare si va affrontando, di conseguenza provengono dalla nostra interiorità più ascetica. Constatabile è infatti che ogni dolore è null'altro che una risposta, un nucleo che si serba da sempre sulle pareti del nostro cuore e sulle essenze della nostra mente. Ciò che le relaziona è proprio questo: l'emotività si configura con il razocinio, e da questa unione ne scaturisce una vertigine che mira a pretendere sempre qualcosa di dissimile, ovvero qualche ente che provenga da un altrui essere o fenomeno (che normalmente non mancherà di allacciarsi con la nostra persona), maturato in quell'istante in struttura esistenziale differente dalla nostra, per tempestività di processi. Questa entità benigna la si può nominare come affezione dalla beatitudine. Essa è la forma più elevata del bene, ovvero quando ogni bene ha raggiunto una stabilità armonica con gli altri in un processo di maturazione dell'essere preso in soggetto. Il suo contrario è la disperazione. Esso è l'elemento che più si appaga del bene, della beatitudine, è il cane da guardia di questa che, senza padrone, è destinato a cadere in una rete di collera e di incapacità. La vera disperazione è la mancanza ad ogni bene proporzionale a questi, in relazione sempre indivisibile, un quoto solidale, egoista nella forma più disparata. Ma la vertigine più dolorosa di cui è elevatamente vittima l'uomo non è la disperazione; o almeno non quella generalmente intesa. È piuttosto la disperazione oggettiva. Non quella che si avverte per il mondo, ma quella che si manifesta una sola volta, quando si decide di commettere l'irreparabile, quando le maglie dell'esistenza vengono al crollo, quando ogni elemento è sacrificale e richiede il massimo sacrificio. Nella disperazione vera non si ha più la forza di urlare, ma solo di contemplare questa, per un'ultima volta. Allora non si è più in un deserto muto, allora si è in bilico tra la scelta mancata e l'oblio. La sicurezza che c'è in questa disperazione è della fine; non si può proprorre allora che tale disperazione è in realtà una autoforma di soddisfazione più totale? - perchè, quanto è più alta la disfatta, tanto è più alto il rimedio che vi si può scovare. Ma questa che sto assiduamente professando non è capacitata; è nell'incoscienza d'un pulviscolo cadaverico, un torrente vermiglio, ricco di vitalità più che mai: è la vitalità più distorta in natura, in quanto è la vitalità che nega la stessa, ma non già come morte, ma come respiro stizzoso che in questa intravede scviolando solo la sua negazione. Irresponsabilità tenace, l'unico sguardo che si può prestare al finire del mondo. Non è un lamento, è una constatazione di paralisi, è l'ultimo lamento dell'anima, l'estremità di svolta, la polarità della sensazione che trascende ormai la ragione, anche se era sgorgata da questa, come una comune disperazione. Ecco dunque che essa nobilita l'animo: è la più raffinata incoscienza della coscienza, la quale vira ad un'essenzialità assoluta quanto ironica, nella sua ambiguità completa, che riduce tutto partendo da una singola mediocrità, quale è al disperazione, giungendo ad una sopraffazione di questa con il suo più profondo significato. Non è più nulla, non è più tutto, è solo ciò che rimane come valore all'irrazionalità dell'esistere. La materia della vita è contradditoria alla vita stessa. Follia, ambiguità, redenzione, la Disperazione. Senza significato, ma con massima rappresaglia, la vendetta più diletta alla vita.

Complotti lunari

Un'urina di stelle, l'oblio edifica il suo fiato sui letti delle nuche
dove si stendono ominidi pronti per l'incarico dello slittamento gerarchico
nella scala del carbonizzato tacere.
Nel frullato del mondo coincide un brusio implicito,
e le scorze dalla trama si dimettono come scaracchio di miti remoti.
Il muco sgattaiola all'uscita, e l'altare del piombo pressurizzante
inchioda risi e anatemi.
- in questo aborto siderale di luci e affinità raggelate
la depressione sacrifica agli angoli effervescenti o ai pilastri di spazio
l'unico raggiro che possiede. Ed è sabbia corta. Anello dell'attrito. S'affievolisce il magma di seta.
Respiro lacerato. Irrora schiuma al calice lunare. Statura di colpa, supplizio orbitale.

Salpato nella traiettoria, il sacrilegio dell'ignoto ci unge di soffioni nella nostra mole,
che elastica come un adesivo impone slanci e santi coagulati sulla terra scheletrica -
decadono superfici e rauca qui non v'è acqua.
L'emissione è un raggio unitario di un cratere color latte,
in cui odissee d'infortunio si sono arrovellate su lunule di corone,
e infossati i sismi si piegano a bende di crepe - e l'eclissi è inevitabile, scivolamento stazionale.
Stridono le galassie, le labbra del cosmo smagrano in vulgate sorde.

E dunque, il delitto in un esilio, quello abbagliante della notte, in cui una bara serba più clamore.

In taniche di gas si brilla con attitudine gli spicchi cristallini, ove roccie e sonde
giocano a prendere nel diafano capofitto, esangue decorso d'un binario immoto; d'una sdrucciola gravitante
- del nero, del colloquio del satellite.


lunedì 10 gennaio 2011

nnt imp e saluti

Indifferenza e menzione
una condanna, una condannaaa
che con scaglie di taglio
s'incendia nel baratro dove si piscia.
Questo cielo, che ingabbia con colate d'ossigeno
che snerva l'osso con sacchi di freddo
è un sorso d'inzuppo è una sciarpa intensa
è una meteora di chili
che siedono sul tuo capo stampato.
Io, carminio camerista cuore di uosa
sotto tal cielo, in debito con l'esser torchiato,
nel più insulso lago di scorticato tessuto.
Il cielo, monitor dinamico di spaghetti stinti,
di sopra è rotto col significato
sformato nel canto di un neonato.
L'ometto stecco che non crolla sono io,
solo con la risata che sradica soffitti,
che impenna versatili entusiasmi
che viene udito solo da se stesso.

La pulsazione è una volontà didattica e il senso un'ilarità versata a ritmo di chiatta...
passeggiata nelle nuvole più nuvolose, nel cinerino d'una umidità rarefatta
a basso pendio, dove gli stendardi son spulciati, sciorinare alle litote termiti
- stuoli nel fiocco di neve in disfagia planetaria.

E il punto . è uno unico solitario taciuto peculiare retrosenso
accisa l'erezione, mi mando nel mondo come un agnello in mezzo al.

Debita conseguenza: abusione di passione. Null'altro che una parola.
Interessamento malazzato, infervorato nella sfera nostra; cala il caglio dove c'è ciò che non dovrebbe.
Si cerca l'enzima di sangue, la parola smorta e il sorriso si ripiega
in un broncio sensato alle labbra d'un oroscopo, di una folle ribollita dopo un'uccisione.
-
Una gara di plasma, di nervi in aderenza
e quando intima un latrato la zizzania parabolica è perpendicolare quanto dove si vuol scagliare
a spiga color carta da gioco
-
prostrati al cielo, nelle ceneri del mantenimento.