peccandomi mi deposito, tagliuzzo a spicchi la carne del reato, come la torta della zia al compleanno dello scocco
che smuove la festa, rapporto placentale con la corsa o movente per cui ho affettato, vincolo tra muscoli e mele e
mia zia mia nonna gli ho voluto bene, in fondo. e non pensate il fondo come all'abisso,
alla voragine dove ho perso il ritroso della cute, il rimorso della meninge (si, nel senso che sono stato sfibrato,
addentato più volte), ma una capacitazione di tutto quello che capitola, che finalmente comprende perchè si trova lì,
affretta in conoscenza ciò che di lui va più lento, la visione del resto, il rallent del senso. [capito-l'ha]
e in fondo ogni fondo è un urto, un massimo che si protrae dal braccio alla spinta dell'orlo, il vertice della fede dentro l'azione.
e ora ricordo che mia nonna l'ho spinta giù dalle scale, l'ho schiantata verso la luce, o il buio, fatto sta che
s'involò tra le ossa della tromba, le pieghe della forma che convergevano nel vuoto a piombo, verticale.
in quell'occasione, il fondo fu
(a) l'impatto - del limite con la possibilità di superarlo, (b) la zona da penetrare per il penetrato cioè (c) la metafisica dell'incastro
(sembra tanto distante perchè è di un vicino irraggiungibile, organo scottato, autoprolusione a scatto)
e vaffanculo a me e ad aristotele
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